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La fanga de Roma è, in tutta la sua opera romanesca, l'unico sonetto nel quale Giuseppe Gioachino Belli parla direttamente di se stesso. Ma la fanga de Roma può rappresentare la plebe che il poeta racconta nei 2279 sonetti in dialetto, tracciando una trama articolata dello gnommero, il gomitolo che era la realtà papalina di metà Ottocento, raccontata per mezzo di quelle connessioni interne che il poeta chiama il filo occulto, e intricatissimo, che collega tutti i componimenti. L'autore cerca di dipanare alcuni di questi itinerari seguendo attentamente dei percorsi che vanno però oltre il mero dato testuale: l'educazione, sia quella del popolo che quella del potere (e del potere sul popolo); il paradosso insolubile tra esistenza di Dio e presenza del male e della morte - il male in assoluto - su questa terra; la traccia di vite parallele alla sua in periodi e/o campi artistici diversi (Belli-Caravaggio e Belli-Mattei); la dura, drammatica condizione di vita dei contadini nella campagna romana dell'Ottocento; una rivisitazione personale, un divertissement, delle vicende della Rivoluzione Romana del '49, la Repubblica dei briganti. Si avverte nella scrittura di Elio di Michele la ricerca di assolvere a una duplice funzione: affrontare tematiche nelle quali esprimere la propria passione verso l'opera, non solo quella dialettale, del grande romanesco e dunque farlo accostare a tutti, soprattutto ai profani e a quanti ancora oggi pensano che Belli sia solo il cantore dell'osceno.